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1. Publication history (in Italian only)

Uno di questi giorni venni a proposito col Padre Inquisitore di ristampare il 'Discorso delle cose che galleggiano'. Mi disse havere espressa comissione da Roma in contrario. Le replicai potere ciò essere dell'opera circa il sistema copernicano. "No", mi replicò, "è divieto generale de editis omnibus et edendis". Le dissi: "Ma se vorrà stampar il Credo o Pater noster?". Restassimo che mi darà copia della comissione, a ciò possa ancor io adoperarmi, perché ho assai rissolutione contra la tirrania, ma col riguardo di non far danno allo stampatore.

Così Fulgenzio Micanzio a Galileo il 10 febbraio 1635. Non solo la condanna, quindi, l'abiura, il confino, la proibizione di trattare materie celesti, ma anche il divieto agli inquisitori di rilasciare permessi di stampa per le opere di Galileo, fossero già edite o ancora inedite. Neanche più risposte, quindi, «alle opposizioni in materia di scienze», tantomeno «agli scherni, alle mordacità et all'ingiurie» dei suoi detrattori.

All'estero, però, le opere di Galileo si stampavano eccome. A parte il tentativo fallito da Pierre Carcavy di ripubblicare l'intero corpus dei suoi scritti, a Parigi Marin Mersenne curò la traduzione francese de Le mecaniche presso l'editore Guenon, a Strasburgo Mathias Bernegger tradusse in latino il Dialogo e lo diede agli Elzevier, che si accollarono anche la stampa della versione latina, sempre patrocinata dal Bernegger, della Lettera a Cristina di Lorena.

Galileo, non riuscendo a «dar quiete» al suo «inquieto cervello», aveva ripreso in mano i suoi studi di fisica, preclusogli ormai per decreto il campo astronomico. Non era ancora rientrato a Firenze, a pochi mesi dal processo e dalla condanna, che già, durante il soggiorno senese che lo vide sotto custodia cautelare nella residenza del vescovo Ascanio Piccolomini, riceveva da Mario Guiducci una lettera di complimenti per «il buon progresso delle speculazioni» e «la speranza... di continuare... in iscrivere» durante l'inverno. Era buona cosa per il Guiducci che Galileo si occupasse di «altre materie», per dimostrare di non essersi «ingolfato... nella considerazione del sistema copernicano» e garantirsi «notabilissimo scarico delle passate traversie appresso di qualsivoglia persona intendente». Verso la fine del 1634 Galileo rassicurava il Micanzio: il suo «trattato del moto» stava «all'ordine», ma richiedeva «gran dispendio di tempo», perché la riflessione continua sulle «novità» lo costringeva a «buttare a monte tutti i trovati precedenti».

Ben prima della pubblicazione l'opera cominciò a diffondersi per l'Europa, in brani. I corrispondenti leggevano, commentavano, consigliavano, davano apporti al lavoro in fieri, da Parigi come da Roma. Nel febbraio del 1635 a Venezia il Micanzio, che di fatto si occupò dell'editing per la stampa, organizzava un consulto di esperti, Paolo Aproino, Andrea Argoli e Antoine de Ville, ingegnere di Tolosa, per un esame minuto di soli sei fogli manoscritti, gli unici di cui era in possesso al momento. Si inviavano a Galileo dimostrazioni da commentare nel testo, se ne richiedevano certi scampoli, ci si lamentava di non averne visti altri.

Pubblicarlo non fu semplice: per gli editori era un rischio. In Italia neanche a parlarne. L'ingegnere militare Giovanni Pieroni si trovava per lavoro presso l'Imperatore: tentò a Vienna e a Praga, ma senza successo. Nel 1636 gli Elzevier, interpellati, accettarono di nuovo. Si rivelò iter tutt'altro che breve: Galileo fu lento, una serie di accidenti intralciò l'arrivo dei manoscritti a destinazione, nonostante più di un intermediario desse il proprio contributo alla causa. Si agì, forse, anche con prudenza. Nell'agosto del 1638, uscito da un mese il libro, Galileo venne a sapere che gli Elzevier si erano presi l'arbitrio di cambiare «l'intitolazione» da lui scelta «riducendola di nobile... a volgare troppo, per non dire plebea». Ne provò «maraviglia e travaglio». L'intervento chiesto a Marin Mersenne di far ristabilire il titolo originale non riuscì: i suoi Dialoghi (e non siamo a conoscenza del seguito) divennero Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze. Troppo recente e ancor viva la memoria dell'altro Dialogo e della sua cruda sorte.

Galileo stesso era diventato più cauto: gli acciacchi dell'età, l'esperienza vissuta. Nella lettera di dedica al conte François de Noailles, antico allievo, dette a intendere di esser stato «improvvisamente... da gli Elzevirii avvisato» che le sue opere erano «sotto i torchi», e di esser rimasto stupito da quella «inopinata ed inaspettata nuova». Neppure aveva voluto includere, nonostante le insistenze del Micanzio, una risposta alle anticopernicane Esercitazioni filosofiche di Antonio Rocco, che lo aveva attaccato a colpi di veteroaristotelismo, forte del bavaglio impostogli in certe materie e sicuro quindi che non ci sarebbe stata replica. Le note taglienti di Galileo restarono lì, a margine della sua copia personale.

Fu anche l'ultimo a vedere il suo libro, a un anno dalla stampa. L'avevano già letto in molti, a Venezia, a Roma, a Strasburgo, a Parigi, in Olanda. Neppure seppe dell'arbitraria traduzione francese che Marin Mersenne pubblicò a poco più di due mesi di distanza, né mai l'ebbe in mano. Era arrivato prima di lui anche Cartesio, che non apprezzò i Discorsi: troppe digressioni, scarsa coerenza. Vecchio malandato e cieco, Galileo aveva preso dal cassetto i lavori di una vita, più o meno perfezionati, riducendoli nella forma dialogica che gli era più congeniale. Non gli bastarono le forze per approfondire tutte le ricerche, per dare più armonia all'insieme. Intatti, in appendice, i Theoremata circa centrum gravitatis solidorum, rimasti (non soli) in latino, come quando li aveva scritti poco più che ventenne.

Qualcuno aveva consigliato Galileo di desistere dall'impresa della pubblicazione, visti i precedenti: sarebbe stato meglio mettere qualche copia manoscritta in alcune «librarie publiche et libere», lontano dall'Italia, «in Francia, in Germania o in Fiandra», così che chiunque fosse stato interessato si sarebbe potuto trascrivere il testo da solo, con rischi minimi per l'autore dell'opera. Ma sarebbe stata precauzione eccessiva: i suoi controllori, così attenti a ogni minimo movimento, così fiscali nella sorveglianza delle sue frequentazioni, rigidi al punto da negargli persino il permesso di curarsi in città, non si resero apparentemente conto di nulla, non mostrarono di vedere un'operazione di cui mezza Europa era a giorno. Si era deciso, evidentemente, di lasciar correre. In fondo Galileo trattava di struttura della materia (anche se di una struttura atomica vagamente imbarazzante), di moto dei corpi, e non (almeno esplicitamente) di questioni copernicane. Le autorità ecclesiastiche credettero di aver vinto la guerra, proibito il Dialogo e limitate voce e libertà a Galileo, che non si risollevò mai veramente e, nonostante la benevolenza del Granduca di Toscana, sovrano purtroppo di potenza infima a cospetto del papa, morì isolato e segregato nel 1642. Quello stesso anno nasceva Isaac Newton.