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5. La terza lettera

L’esordio della terza lettera [V, 186-239] è tutto filosofico. Che cosa può arrivare a conoscere l’uomo con la sua attività di ricerca? «O noi vogliamo specolando tentar di penetrar l’essenza vera ed intrinseca delle sustanze naturali; o noi vogliamo contentarci di venir in notizia d’alcune loro affezioni». Conoscere è conoscere la natura nei suoi primi fondamenti vitali o è cercare semplicemente di capire il suo funzionamento? Galileo non ha dubbi.

Il tentar l’essenza, l’ho per impresa non meno impossibile e per fatica non men vana nelle prossime sustanze elementari che nelle remotissime e celesti: e a me pare essere egualmente ignaro della sustanza della Terra che della Luna, delle nubi elementari che delle macchie del Sole; né veggo che nell’intender queste sostanze vicine aviamo altro vantaggio che la copia de’ particolari, ma tutti egualmente ignoti, per i quali andiamo vagando, trapassando con pochissimo o niuno acquisto dall’uno all’altro.

La ricerca delle essenze ultime comporta una serie di domande infinita, perché ogni risposta cercata genera una nuova domanda, e dopo infinite domande si scoprirà di non aver accresciuto la conoscenza di un millimetro. Cercando ad esempio la sostanza delle nuvole, si scoprirà che è un vapore, allora si vorrà sapere che cosa sia il vapore e si scoprirà che è acqua condensata; si vorrà allora sapere che cosa sia l’acqua e si scoprirà che è quel fluido che scorre nei fiumi, col quale noi abbiamo continuamente a che fare. E questa «notizia dell’acqua» è soltanto «più vicina e dependente da più sensi», ma non approfondisce certo la conoscenza della sostanza delle nuvole, della quale sappiamo esattamente quanto prima. Ma se ci limitiamo a voler capire «alcune affezioni», alcune caratteristiche o comportamenti dei corpi, possiamo arrivare a conoscerle in quelli che ci sono distanti, allo stesso modo, e forse anche meglio, di quanto non possiamo farlo per quelli vicini [V, 187-188].

Dopo un breve accenno alle traiettorie rettilinee delle macchie che dimostrano la perpendicolarità dell’asse solare rispetto al piano dell’eclittica (anche se si sarebbe corretto in seguito, individuando un’inclinazione nell’asse solare, a spiegazione del perché le traiettorie delle macchie appaiano curve per la maggior parte della’anno) [V, 189], Galileo prende spunto da un’osservazione del Welser sulle sue idee intorno ai corpi galleggianti per porre una questione di metodo in funzione antiaristotelica. Che cos’è la filosofia naturale? «Alcuni severi difensori di ogni minuzia peripatetica», per via dell’educazione che è stata loro impartita fin da piccoli, credono che «il filosofare non sia né possa esser altro che un far gran pratica sopra i testi di Aristotele» e li adducono come unica prova delle teorie sostenute. E non volendo «mai sollevar gli occhi da quelle carte» si guardano bene dallo studiare «questo gran libro del mondo» (cioè dall’osservare direttamente i fenomeni), come se «fosse scritto dalla natura per non esser letto da altri che da Aristotele, e che gli occhi suoi avessero a vedere per tutta la sua posterità» [V, 190].

Si entra poi nel merito delle questioni astronomiche, a cominciare da Venere, la sua grandezza, la sua posizione e la sua rotazione intorno al Sole. Galileo non è soddisfatto delle dimostrazioni dello Scheiner. «A i molto periti nella scienza astronomica bastava l’aver inteso quanto scrive il Copernico nelle sue Revoluzioni per accertarsi del rivolgimento di Venere intorno al Sole e della verità del resto del suo sistema». Ma «per quelli che intendono solamente sotto la mediocrità» è necessario che si confutino certe comuni obiezioni, cosa che Apelle è ben lontano dal fare [V, 192-199].

Passando poi alle forme e ai movimenti irregolari delle macchie solari, Galileo non comprende come le argomentazioni delle sue precedenti lettere non abbiano indotto il suo interlocutore a correggersi. Apelle ha mantenuto nel tempo sostanzialmente la stessa posizione, che Galileo contrasta nel merito (mantenendo comunque una persistente incertezza sulla natura delle macchie), ma soprattutto nel metodo, nel continuo ricorso alla tradizione, nel fondare le prove delle proprie teorie «su l’opinione, per suo detto, comune di tutti i filosofi e matematici». Ma di fronte alla dimostrazione della verità «l’autorità dell’opinione di mille nelle scienze non val per una scintilla di ragione di un solo» e oltretutto «le presenti osservazioni spogliano d’autorità i decreti de’ passati scrittori, i quali se vedute l’avessero, avrebbono diversamente determinato». E Galileo ammonisce i colleghi: «la natura, sorda ed inesorabile a’ nostri preghi, non è per alterare o per mutare il corso de’ suoi effetti»: i fenomeni che si osservano si manterranno identici nei secoli e saranno oggetto di moltissime osservazioni. Attenzione quindi a non «piegare dalla mira della pura verità» per motivi che nulla hanno a che fare con la conoscenza [V, 199-220].

Nel confutare la presunta natura di stelle vaganti voluta dallo Scheiner per le macchie solari Galileo nega anche l’idea che la Terra, «come opachissima oscura ed aspra che l’è», non sia capace di riflettere la luce del Sole come gli altri pianeti, considerati di sostanza celeste. La Terra è al contrario capace di riflettere sulla Luna la luce del Sole e la Luna, dal canto suo, non è affatto lucida e trasparente [V, 221-225]. Cozza inoltre con le osservazioni telescopiche l’assimilazione fatta dallo Scheiner fra le macchie solari, «instabili sempre e mutabili», «generabili e dissolubili», «oscure sempre e splendide non mai», e i satelliti di Giove, caratterizzati al contrario, da forme, movimenti, tempi regolari e da costante luminosità. Il «desiderio di mantenere il suo primo detto» più che la volontà di stabilire la verità sulle cause dei fenomeni naturali fanno incappare Apelle in un gigantesco errore di metodo: non «potendo puntualmente accomodar le macchie a gli accidenti per l’addietro creduti convenirsi all’altre stelle», accomoda «le stelle a gli accidenti che veggiamo convenirsi alle macchie». Atteggiamento comune ai non pochi filosofi peripatetici che negano o falsano i risultati delle osservazioni astronomiche, pur di difendere l’inalterabilità del cielo, «la quale forse Aristotele medesimo in questo secolo abbandonerebbe» [V, 226-231].

Dopo aver elencato ulteriori elementi osservativi a discarico della tesi sostenuta dallo Scheiner [V, 231-234] ed aver stigmatizzato il rifiuto della corruzione come se fosse sinonimo di distruzione o morte, e non solamente di mutazione o trasformazione («né parmi che ragionevolmente alcuno si querelasse della corruzion dell’uovo, mentre di quello si genera il pulcino»), Galileo offre la propria sottilissima spiegazione, tutta psicologica, di un atteggiamento così antiscientifico: «io dubito che ’l voler noi misurar il tutto con la scarsa misura nostra, ci faccia incorrere in strane fantasie, e che l’odio nostro particolare contro alla morte ci renda odiosa la fragilità» [V, 235].

Con l’ennesima aperta dichiarazione in favore della verità del sistema copernicano, supportata dalle apparenze di Saturno tricorporeo e di «Venere cornicolata», la lettera si chiude [V, 237-239] esibendo anche un nutrito gruppo di efemeridi dei satelliti di Giove per il marzo, l’aprile e il maggio 1613, a dimostrazione della loro regolarità nei moti [V, 241-249].